Nuovo libro per la scrittrice molisana, Alessandra De Blasio

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REGIONE – É uscito in questo giorni il secondo libro dell’autrice molisana Alessandra De Blasio, campobassana residente da anni a Roma. Si tratta di un volume a tinte fortemente autobiografiche, ricco di osservazioni sul suo mondo e di riflessioni sulla vita.

Questa la recensione scritta dall’amico Giampiero Castellotti, che un anno fa ha presentato il suo primo libro.

“Entrando a casa pensavo che le scale mi perseguitavano da sempre. Da ragazza avevo abitato al terzo piano senza ascensore. Cinquanta scale da salire che mi parevano sempre troppe. Niente poi al confronto al quarto piano senza ascensore della mia età adulta. Settantasette scale da contare ogni volta. Settantasette scale da salire, chissà poi perché, sempre con un peso addosso: un passeggino, una valigia, un bambino. Le buste della spesa, una borsa pesante, l’ombrello bagnato dalla pioggia, il piatto cucinato dalla signora Nella. Sempre con le mani a dover reggere qualcosa”.

C’è tutto il senso dell’impegno, non solo atletico ma soprattutto esistenziale, nel brano che schiude il cuore, cioè la pagina 50, nell’anima del libro “Come un pappagallo verde su un ramo grigio d’inverno”, cento preziose pagine edite da “La Ruota”, che costituiscono il secondo diario umanistico – e naturalmente intimistico – di Alessandra De Blasio.

Un registro originale e maledettamente autentico di un arco vitale ri-vissuto ostinatamente in retrospettiva, con il benefico esercizio della circostanziata annotazione. I pensieri “giungono perfetti ma finiscono sconnessi”, filtrati dall’ipersensibilità di una personalità decisamente complessa (e “compressa”). Multiforme. Eterogenea. Risolutamente poliedrica e versatile.

L’autrice dà vita ad un flusso introspettivo che, per l’impeto schietto, potrebbe fare a meno della punteggiatura, elemento troppo convenzionale per un’esposizione di genere libertario più che letterario, che non rinuncia a gocce – ma proprio a stille – di sovversione, quelle che concedono la colonna sonora ai Supertramp, a Phil Collins e a Francesco De Gregori, al limite con una citazione di un Francesco Guccini d’annata o, per gli occhi ed il cuore oltre che per le orecchie, di un film di Truffaut con il suo realismo poetico, fino all’immancabile “Il male oscuro” di Giuseppe Berto.

Il fiotto di considerazioni acquisisce ulteriore forza nell’ambivalenza e nella contraddizioni che sono specchio, in fondo, delle vite di tutti: scorrono biografie anonime, claustrofobiche, da “amiche novantenni”, sempre più affini tra loro, viaggiatrici stipate su vagoni della metro o incasellate in storie spente, scontate e – come tali – insignificanti, che costituiscono – nell’ineludibile confronto con quella della protagonista – anche una sorta di masochismo per la raffinata emotività della scrittrice. Ê la gente dei mondi paralleli, che s’infila anche nell’Imperuranio, quella che fa sfilacciare il tempo anziché centellinarlo, che nella carrellata di mesi dalle sembianze umane – uno per capitolo – diventa interprete principale di quella stagione vuota ed effimera che è l’estate, “un pegno da pagare”, come sintetizza efficacemente la cesellatrice delle parole.

La De Blasio, autrice e artista, trova vitalità, difesa e quasi legittimazione, nella scrittura risoluta, attenta al dettaglio, ricca di similitudini (“l’anima di Proust accarezzata come una coperta morbida”), irrorata nella poesia, con la coscienza che il tutto sia opera da “fuoriclasse della riflessione”, sebbene con l’umanissimo “sopracciglio disordinato” da provocatrice e con la ferita di un dente curato nell’infanzia e abbandonato da adulta. Oro per la patria dell’esistenza.

Una narrazione laboriosa per l’autrice orgogliosamente “a-contemporanea” e impegnativa per il lettore-osservatore-analista, in un perenne confronto con una “testa (spesso) estranea alla sua testa”, policroma tendente al grigio, lineare aspirante al gravoso, abbagliante incline al volutamente sfocato.

E a fronte di una ricca umanità che fa da scenografia al mistero della vita, tra i rimpianti per la morte di un vicino senzatetto e le amiche che diventano nomi, una sorta di figuranti preziose perché idonee a rafforzare pensieri talvolta “brutti come le cicale”, ecco la speranza affidata a quel pappagallo verde che, con la sua costante presenza, adorna il ramo grigio dell’inverno, con le sue riflessioni e i suoi innamoramenti, fino alla presenza di un’anima gemella. In fondo, con ottimismo, in quei colori equatoriali, in quelle ali eleganti, in quell’innamorarsi rumoroso sui rami della vita può esserci il balsamo che attenua le idee confuse e i malesseri che stazionano nella mente, il medicamento per gli inevitabili errori, il conforto per le ferite delle battaglie quotidiane contro il logorio di una metropoli, il toccasana contro i luoghi oscuri fisici e mentali, il rimedio per le immancabili malinconie che fanno capolino e si srotolano impietose sulla nostra sussistenza.